E’ nato l”inzaghismo’, ma nessuno se n’è accorto. Ah, se solo ci fosse un Brera tra noi al posto di queste mezze tacche…


Se oggi in mezzo a noi ci fosse uno come Gianni Brera o Beppe Viola, dopo due anni e mezzo di Inter griffata Simone Inzaghi, avremmo la certificazione etimologica dell’esistenza dell”inzaghismo’.
E invece, ahi noi, il presente pullula di mezze tacche di giornalisti sportivi e opinionisti bandieruole ed ecco che il gioco spettacolare condito da risultati di Simone da Piacenza (le Coppe vinte finora parlano…) viene esaltato sì, ma poi mica tanto. Vedrete, al primo passo falso lo rimetteranno sulla graticola. I complimenti a Simone arrivano da Pep Guardiola, e poi Simone se li fa da sè: “Io mi diverto a guardare questa Inter e i miei ragazzi”.
C’è stato il tempo del ‘sacchismo’, del ‘sarrismo’, dell”allegrismo’ no (per fortuna), e neppure del ‘piolismo’.
Ma da due anni e mezzo a questa parte l”inzaghismo’ c’è e si vede, anche se in pochi se ne sono accorti.

Simone da Piacenza ha un grande pregio – è la riflessione di calciomercato.com (rubrica vivoperlei) dopo la vittoria dell’Inter sulla Lazio per 3-0 in Supercoppa – è poco mediatico. Persino in questi giorni, in cui la battutaccia del collega Allegri avrebbe potuto servirgli l’assist per rispondere a dovere: niente da fare, con l’allenatore interista non attacca. Lui è vecchio stile, ma estremamente moderno sul rettangolo verde. In Italia non c’è ovviamente paragone con nessuno, ma anche in Europa sono poche le compagini che possono ritenersi superiori al prodotto interista. Ed è per tal motivo che sarebbe corretto iniziare a parlare di ‘corrente inzaghiana’. Per carità, non siamo di fronte alla rivoluzione copernicana, ma spesso vengono assegnati dei riconoscimenti da parte di pubblico e critica a operati ben più normali rispetto a quanto sta esibendo il tecnico emiliano.

In primis, il suo 3-5-2 è già di base un qualcosa di estremamente affascinante. Tra i big, probabilmente solo il predecessore Conte utilizza tale sistema di gioco ad alti livelli, mentre gli altri (da Guardiola a seguire) difficilmente rinunciano alla linea arretrata a 4. Lo schema inzaghiano, ad occhi superficiali, potrebbe apparire con un mascherato 5-3-2: in realtà, questa situazione non si verifica praticamente mai, pur mantenendo una solidità incredibile. L’idea che rende stuzzicante il gioco interista sta a mio avviso nella sapiente gestione dei braccetti. Prendiamo l’esempio più recente: Bastoni affonda e dà il via all’azione che porta allo strepitoso tacco di Dimarco per il tap-in di Thuram. Ora, il lavoro del numero 95 sarebbe tipico dell’esterno di centrocampo, ma in realtà l’ampiezza laterale che riesce a imprimere il gruppo nerazzurro consente di avere una marcia in più aggregando persino i difensori. Non di rado, ho visto Pavard sulla linea dei centrocampisti, con Calha arretrato per non lasciare sguarnita la retroguardia. E questo accade frequentemente, non solamente in una delle serate più belle della stagione.

Altra chiave, gli esterni. Il dispendio energetico è enorme, ma quanto ci sono le sventagliate, soprattutto a sinistra, è come assistere a una pennellata di un grande pittore, che ti porta a vivere una sensazione di bellezza, di piacevole gusto. Sul centrocampo, ci sarebbe da scrivere una tesi: un regista fisso e i due interni a tutto campo. Nello specifico, poi, ha degli interpreti che favoriscono questo tipo di attività, con una superiorità a tratti imbarazzante sulla trequarti garantita dal volume e dallo spessore del trio nevralgico. Davanti, invece, secondo me l’inserimento di Thuram ha arricchito ulteriormente lo spartito: giocare con una punta meno tipica (penso a Dzeko o a Lukaku) permette di avere più soluzioni offensive imprevedibili, tanto è vero che mai come quest’anno Lautaro Martinez è incontenibile sotto il profilo delle realizzazioni. Per carità, anche lì ci sarebbe da fare un discorso ben più profondo sulla crescita dei singoli, ma ritengo sia doveroso riconoscere a Simone Inzaghi la bontà del suo lavoro, troppo oscurata dalla mancanza di titoli pesanti.

Poi, c’è un’altra caratteristica che mi fa impazzire: la gestione del gruppo. Probabilmente, chi è esterno al mondo Inter non se ne accorge approfonditamente, ma c’è un clamoroso spirito altruistico che alberga in ogni componente. Quando il risultato è acquisito, invece di affondare con l’individualismo, si cerca di mettere il compagno che più necessita nelle condizioni di segnare o comunque di far qualcosa di utile alla causa. Emblematica l’azione sfumata nella chiacchieratissima sfida contro l’Hellas Verona tra Barella e Sanchez, in cui il primo ha cercato di servire il compagno pur a porta completamente sguarnita. Non solo, però: tutti cercano di fare in modo che ognuno metta il suo tassello in un’annata che può realmente dare grandi soddisfazioni. Sui cambi, qualche perplessità l’ho avuta nella sua ostinazione a non cambiare mai modulo (croce e delizia del credo inzaghiano) e a volte nel tardivo ricorso alle sostituzioni. Di contro, però, l’utilizzo totale degli slot è qualcosa che mi piace tantissimo, perché significa dare fiducia a tutto il collettivo. Persino ieri sera, seppure sul 2-0 e con un bello spezzone da disputare, ha scelto di avvicendare la coppia titolarissima con le alternative. Non era scontato, sarebbe bastato un gol della Lazio per riaprire i giochi e rendere il finale incandescente, eppure lui continua a voler dare occasioni e opportunità a tutti. Ha realmente plasmato un gruppo.

Eppure, non è stato sempre così. Ricordo benissimo lo scetticismo rispetto al suo arrivo. E forse era anche giustificato: venivamo da due anni di Conte, il migliore dopo l’epoca di Mourinho. Avevamo appena vinto lo Scudetto, Lukaku era andato via, Hakimi idem: la situazione era critica. E aver perso il tricolore contro un Milan oggettivamente superabile, è stato un duro colpo. L’anno scorso, poi, io stesso pensai che la storia tra l’Inter e Inzaghi fosse giunta al capolinea. Di colpo, la trasformazione: Inter-Barcellona. L’intuizione di Calhanoglu in cabina di regia (altra genialata da reclamizzare) e la vittoria per 1-0 contro i blaugrana del rosicone Xavi hanno dato nuova linfa sia alla stagione che all’intero percorso. E adesso, i frutti si stanno godendo: la squadra gioca bene, ti fa divertire, è paziente, attende gli spazi giusti per trovare le geometrie e affondare. Siamo sempre pericolosi, non rinunciamo mai a giocare, e ciò è stato dimostrato anche in finale contro il Manchester City: al cospetto dei campioni di tutto, perdere di misura (e in quel modo) è stato onorevole. Alla faccia di chi ha trasformato la sconfitta a testa alta in un insulto o sberleffo. Tutto bello, ma siamo ancora a metà dell’opera: per cominciare, però, sarebbe gradevole riuscire a portare a casa il primo trofeo dell’anno. Per dimostrare ancora una volta che in questi anni è nato un nuovo fenomeno: l’’inzaghismo’”.

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