EDITORIALE – Simone Inzaghi, dal silenzio alla gloria: l’addio (giusto) all’Inter

Simone Inzaghi lascia l’Inter: tra ingratitudine, cicli che finiscono e scelte legittime

L’addio di Simone Inzaghi all’Inter è arrivato come un fulmine a ciel sereno solo per chi ha osservato da lontano. Per chi vive l’ambiente nerazzurro, era un finale scritto da settimane, se non da mesi. Nonostante questo, il modo in cui viene oggi trattato l’ex tecnico interista da parte di certa stampa – in particolare La Gazzetta dello Sport – suona come l’ennesima pagina di ingratitudine e miopia critica che ha spesso accompagnato la sua esperienza a Milano.

L’uomo delle due finali e il capro espiatorio

Inzaghi verrà ricordato come l’allenatore che ha portato l’Inter a due finali di Champions League in quattro anni. Due volte sconfitto, è vero. Ma è davvero questo il metro con cui valutare il suo operato? Sotto la sua guida, l’Inter ha ritrovato una propria identità europea, superando avversari blasonati e costruendo un gruppo compatto, tecnico, a tratti dominante. Ad Istanbul sapevamo tutti quanto fosse difficile affrontare il City e abbiamo lottato fino alla fine. A Monaco, invece, tutta un’altra storia. La squadra non è mai scesa in campo. Qualcuno insinua che la squadra abbia giocato la finale sapendo che l’allenatore sarebbe partito. Ma si può davvero credere che professionisti del calibro di Lautaro, Barella, Bastoni o Acerbi – alla sua ultima occasione, forse – abbiano “mollato”? È un’accusa infondata e irrispettosa. Semmai, la squadra ha pagato l’ansia, il peso della storia e la forza dell’avversario. La scelta di Inzaghi non c’entra nulla. Sicuramente l’approccio nei giorni precedenti alla sfida non è stata perfetta, così come la condizione fisica ed atletica dei giocatori.

Il sospetto del “tradimento”?

Inzaghi ha davvero scelto l’Arabia per soldi? Probabile. Ma è tutto qui? La sua decisione – comunicata alla società prima della finale contro il PSG – non sembra figlia dell’ultima sconfitta, né di un capriccio improvviso. È stata una scelta meditata, stanca, forse necessaria. Quattro anni alla guida dell’Inter, in un contesto di continue pressioni, dubbi e malelingue. Dal primo giorno gli è stato rinfacciato di non essere Antonio Conte, poi di essere troppo “molle”, “timido”, “incapace nei cambi”. Ha risposto con trofei, crescita costante e risanamento del bilancio.

Se davvero ha scelto di sedersi su un divano più ricco, ha anche lasciato un banco di lavoro usurante, con una tifoseria spesso spaccata e una stampa che non lo ha mai veramente compreso. E non è affatto detto che in Arabia avrà vita più facile: il calcio saudita non è un cimitero degli elefanti, ma un’arena competitiva, ambiziosa e in evoluzione.

Il silenzio di Oaktree

Se c’è una vera nota dolente, è l’inquietante immobilismo della nuova proprietà. Oaktree, subentrata a Zhang con la freddezza di un fondo americano, sembra ignorare la complessità dell’ambiente calcistico italiano. L’idea di puntare su Fabregas oggi, a finale persa, e a settimane dall’annuncio dell’addio, è preoccupante. Serve un progetto chiaro, serve visione. Perdere Inzaghi è un colpo duro, ma restare immobili è peggio.

Un ciclo che si chiude

Il ciclo si era comunque concluso. Il calcio è fatto di fasi, e dopo aver raggiunto il massimo possibile, è legittimo voler cambiare. Inzaghi lo ha fatto con classe, senza sceneggiate, senza comunicati polemici. Il rispetto che non sempre gli è stato concesso lo ha invece sempre mantenuto lui, nei confronti della società e dei tifosi.

Ora l’Inter guarda avanti. Ma guai a dimenticare ciò che è stato: un tecnico silenzioso, elegante, tenace, che ha riportato l’Inter a guardare l’Europa negli occhi. Simone Inzaghi non è stato solo l’uomo delle finali perse: è stato, semplicemente, l’uomo che ha rimesso l’Inter nel posto che le compete.

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