Fabrizio Biasin su X il giorno dopo il pari dell’Inter con la Lazio e il probabile addio allo scudetto n.21.
“Il giorno dopo aver preso lo sberlone la guancia fa male, è livida, gonfia, ti gira la capa e non hai voglia di sentire del bla bla. Anche perché il “bla bla”, quando si parla di pallone, è micidiale: ognuno ha la sua teoria, tutti detestano quella altrui, si esagera, ci si manda affanculo che è un piacere. E allora qui non vi dico “la verità”, come potrei?, metto nero su bianco il mio pensiero senza avere la pretesa che sia anche il vostro. Quanto può far male uno scudetto perso al 90’ di una partita che pareva vinta e invece no, non è vinta per un cazzo? Tantissimo, son qui che mi gratto da ore come se avessi la pellagra. Vien voglia di maledire tutto e tutti, di trovare colpevoli, di dire “vaffanculo tu e tu”, di decidere di-chi-è-la-colpa. Poi esiste quella cosa chiamata “capacità di non buttarla in vacca” che porta a fare ragionamenti un filo più profondi di “’sti qui non si sono impegnati” o “pensano solo alla Champions” o “vergogna, schifo, cacca e pipì”.
Il qui presente ha scelto di fidarsi di questo gruppo tempo fa e non lo ha fatto per un qualche stupido “atto di fede”, ma perché ha visto come lavora, come è gestito, da quali ragazzi è composto, quanto impegno e applicazione metta in ogni cosa che fa. Non è una valutazione che ho bisogno di verificare e certificare con il risultato della prossima partita, l’ho già fatto: meritano la mia fiducia. Per questo motivo non trasformerò ogni non-vittoria in una tragedia e nemmeno gli errori dei singoli in un motivo per pretenderne la crocefissione in sala mensa. Questi signori meno di due settimane fa mi hanno regalato una delle emozioni sportive più belle e profonde mai vissute, una roba bestiale e per nulla prevedibile. Avrei voluto abbracciarli uno ad uno e francamente lo avrei fatto anche se il genietto Yamal, invece di prendere il palo (grazie palo…), avesse segnato il gol del definitivo 2-4 al minuto 91’ di una partita che è già storia del calcio.
Ecco perché, amarezza a parte (riecco la maledetta pellagra), credo di avere abbastanza serenità mentale per accettare che in una stagione da 59 partite in cui provi a ottenere il massimo ovunque, possa capitare che il destino ti imponga di mandar giù un chupito di cicuta. È andata così: ieri salvo miracoli l’Inter si è giocata il campionato, il 31 maggio farà il possibile per vendicarsi nella finale di Champions League, una competizione che fino a 5 anni fa “non era cosa” e ora è diventato “habitat naturale” (mai dimenticarlo). Mi piacerebbe sapere come andrà a finire, ma non ho questo potere e forse nemmeno mi interessa averlo. So solo che non ho bisogno di conoscere il risultato di quella partita per decidere se questo gruppo si merita i miei applausi, li avrà a prescindere. E questo per un motivo persino banale: tempo fa ho consegnato loro la mia inestimabile fede sportiva e, loro, l’hanno custodita come si fa con le cose preziose”.
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